Maestranza
La maestranza degli argentieri trapanesi tra il XVII e il XVIII secolo. Una sintesi attraverso le revisioni dei Capitoli di Salvatore Accardi
Nel primo ventennio del XVII secolo, i mastri di diversi mestieri si riunirono in assemblea per stendere gli statuti, detti “capitoli”, con cui disciplinare l’esercizio della propria arte ancora di tradizione orale e conservare l’osservanza d’usi e consuetudini invalsi nel tempo1. Le norme degli statuti vennero formalmente sancite mediante scrittura notarile e acquistavano definitiva efficacia giuridica ricevendo l’imprimatur dei Senatori trapanesi e la conferma dell’autorità vice regia. Nel primo Seicento, a capo d’ogni ceto presiedevano quattro consoli (sovente uno di loro era il più anziano della maestranza) coadiuvati dal consigliere, vigilavano in maniera rigorosa sull’applicazione delle regole del capitolo e somministravano ai trasgressori le previste sanzioni pecuniarie. Completava l’organigramma della maestranza il tesoriere, persona esperta nel computo e nella compilazione della Rubrica (la raccolta dei nomi degli associati) e custode del denaro della “caxia” (cassa). La maggior parte degli statuti prevedeva la nomina di un Santo patrono, la mutua assistenza alle figlie nubili dei mastri defunti, il seppellimento dei medesimi, l’istituzione della rappresentanza del ceto nella persona dei consoli e del tesoriere. Le eventuali controversie tra i mastri si risolvevano con la supervisione dell’autorità senatoriale, del giudice del Tribunale del Real Patrimonio di Palermo o direttamente dal viceré2. Nel corso degli anni, alcuni ceti aggiornavano lo statuto con altre norme, che disciplinavano con più precisione l’ordinamento e l’attività imprenditoriale dei consociati. Tra le diverse arti diffuse a Trapani spiccava quella degli argentieri e degli orafi, i cui maestri, nel corso dei secoli, crearono e modellarono oggetti d’argento spesso donati in occasione di nascite e di matrimoni, o in oro, in forma di anelli artisticamente molto elaborati e ambiti dalle famiglie altolocate, da alte cariche civili e militari e dal clero3. Tralasciando l’esame delle aggiunte e delle rivisitazioni d’altre norme emanate nel corso del Settecento, si espongono nel presente saggio alcune versioni dello statuto di regolazione della maestranza orafa e argentiera, pubblicato nel 1612, fino alle successive integrazioni sancite nello Stabilimento degli orefici ed argentieri del 1756, dove in particolare si accenna alla maturazione della maestria d’incastrare “pietre d’acqua marina, di pasta, doppiette false, in tutte le sorti d’ingasto” e del corallo, testimoniando l’alto livello raggiunto della professionalità e l’arte scultoria trapanese4. L’approvazione dei capitoli degli argentieri e degli orefici, del 1612, è relativamente tardiva rispetto a quella d’altre corporazioni del resto d’Italia, tra le quali si ricorda quella di Roma sorta nel 1509, quando gli orefici decisero di riformare gli statuti e di fondare la chiesa in Via Giulia per il culto del loro Santo Protettore, Sant’Eligio. La storia dei Capitoli degli orefici e argentieri trapanesi cominciò l’11 aprile 1612, quando, dopo aver eletto protettore dell’arte le “anime del Santo Purgatorio, con altare existente nella Chiesa di San Giovanni Battista (di Trapani, n.d.r.), gli argentieri approvarono ventuno articoli del capitolo, concordando la procedura d’elezione del console e del consigliere e stabilendo alcune regole comportamentali. Si decise che il consigliere, trascorso un anno dalla carica, subentrasse al console dimissionario e che l’elezione avvenisse nella riferita chiesa la prima domenica dopo Pasqua, subito dopo aver cantato il “Veni Creator Spiritus, ed alla fine della creazione del Consigliere si farà cantare il Te Deum Laudamus”. Tra gli articoli approvati notiamo un prominente contenuto ispettivo e un carattere selettivo a tutela della comune continuità dell’arte. Ispettivo per la sorveglianza continua dei consoli sull’opera di ciascun mastro e selettivo nella nomina di nuovi mastri. Si disciplinò inoltre l’apprendistato quadriennale del “garzone”, al termine del quale diveniva “mastro” e proprietario di bottega. Il suo accesso nel sodalizio della maestranza avveniva sovente per mediazione del padre o di un affiliato. L’apprendista, a volte già alla tenera età di otto anni, abbandonava il gioco e la strada per vivere la nuova esperienza lavorativa con il mastro e si votava ad apprendere il mestiere che avrebbe esercitato per tutta la vita. Il mastro-maestro ne curava l’educazione e l’istruzione in maniera rigorosa. Per acquisire o meglio conquistare il titolo di mastro, l’apprendista doveva superare un rigido esame preparato dal console, superato il quale era infine riconosciuto “virtuoso” e “sufficiente nell’arte” (capitolo 4°, “di quelli mastri che vogliono mettere bottegha”). Il nuovo mastro riceveva “uno scritto di licentia” d’esercizio, dietro pagamento di una contribuzione destinata alla “Cassa”. Da quel momento, s’impegnava a consultare i “Capituli per saper l’osservanzia dell’arte” e usare il “sigillo” (capitolo 5°, “delli lavoranti che vogliono lavorare per loro”). Solo i figli favoriti dei mastri erano sollevati da tale impegno, probabilmente perché apprendevano l’arte direttamente dal padre-maestro e potevano mettere bottega liberamente senza pagare alcun contributo. Diversamente da costoro, per esercitare l’arte a Trapani, l’argentiere forestiero era obbligato a prestare una “pleggeria di cento onze”, in altre parole, dare una garanzia simile all’odierna malleveria (capitolo 4°, “di quelli mastri che vogliono mettere bottegha”). Nello statuto del 1621 esistono inoltre alcuni articoli di discriminazione etnica e religiosa. Nell’articolo settimo, s’intima agli associati di non divulgare l’arte “a nixiuno scavo tanto suo proprio quanto di altri”5, pena la perdita dello stesso, ed evitare di cederlo in proprietà al “Regio Fisco et cossì anco ad altri personi vili” ovvero oziosi. Si stabilisce anche un divieto che discrimina gli orafi “Giudei” considerati responsabili di “migliaia di vituperij alle cose”, con la prescrizione che vieta loro di “lavorare Calice, Croce ed altre cose, che servino per la Chiesa, in aprobio della nostra Santa Fede Catholica” (capitolo 8°, “che li Giudei non habbiano a lavorare cose che servino alla Chiesa”). Per una migliore riuscita degli oggetti di devozione, si raccomanda infine ai mastri di operare nel “timore di nostro Signore Iddio e nella giustitia”. Ancora, nel predetto statuto si prescrive di eseguire i lavori di recupero dei materiali, come “d’oro di molitura”6, d’argento, di doratura d’argento, nonché di prestare particolare attenzione all’incastonatura delle pietre preziose secondo i dettami dell’arte, dato che se il console o il consigliere avesse trovato “qualche fraude o’ mancamento contrario alli presenti Capituli”, erano in pieno diritto ed autorizzati a distruggere l’opera artistica realizzata e di “far pagare li peni, conforme si have ordinato e depositare gli introiti nella Cassa”. Il console e il consigliere erano i detentori delle chiavi della cassa dove si conservavano i fondi liquidi, i libri contabili, i capitoli dell’arte e il libro mastro sulla contribuzione degli associati. In questo libro si annotavano, con distinta sezione, gli introiti delle stime e delle multe. Al console era riservato il pieno diritto di operare le “estime”, in pratica le valutazioni dei “jogali, ori et argenti” e d’eseguirle personalmente con annotazione nella “lista particolare in un libro con la giornata e li nomi di contrahenti, acciò se ni possi far fede, quando bisognasse”. I consoli prestavano grande attenzione nel classificare le pietre preziose per la rifinitura, la trasparenza, la lucentezza, il colore ed il peso, elementi che ne determinavano il valore commerciale. Inoltre, applicavano con rigore il nono articolo del citato capitolo concernente la lavorazione dell’oro a “ventuno carati” vale a dire a 875/1000, il tredicesimo articolo “nell’addorare e le opere di filo”, il quindicesimo articolo sui “punti e la bolla per bollare l’argento di marca”, il sedicesimo articolo per “l’aggiustare delli pesi”. Il mastro trasgressore avrebbe assistito alla distruzione della propria opera e avrebbe pagato l’ammenda di due onze se si fosse scoperta la prima infrazione, di quattro per la successiva e per la terza volta l’espulsione dall’arte. Per evitare un simile modo di agire, s’invitavano i lavoranti a sottoporre l’oro al “tatto” del “Consulo, acciò lo tocchi se sia di Carati ventiuno, et approbata tal massa, lo possino liberamente lavorare”. Il quindicesimo articolo regolava l’uso di “far venire dalla Città di Napoli li punti dell’oro conforme all’uso di quella Città, li quali punti si habiano da conservare in potere del Consolo per poter fare li paragoni dell’oro lavorato e da lavorarsi”. Si approvava la regola di “bollare, seu improntare tutte le opere d’argento fatte, e che si faranno, la qual bolla anco l’habbia da tenere il detto Consolo” come avveniva nella seconda metà del Trecento, quando gli argentieri romani si dotarono di un proprio punzone con cui bollavano gli oggetti preziosi7. La bollatura permetteva al console di esercitare controlli e di garantire, nell’interesse comune, la tutela dell’opera e la prevenzione della contraffazione. A tale scopo, l’opera artistica era punzonata con il sigillo e quest’operazione permetteva la garanzia e la conformità del titolo di ventuno carati. La certezza del peso era garantita dalla libbra bollata e dai suoi sottomultipli, cioè i trappesi e i cocci, anch’essi bollati e custoditi “nella Cassa dell’arte, con li quali pesi si habiano da giustare tutti li pesi della mastranza per il Consulo, e Consigliere, e così si debia fare di sei mesi in sei mesi”. A protezione del sodalizio, si prescriveva di controllare le gemme, l’oro e l’argento lavorati provenienti “di fori”, convenendo di “star con gli occhi aperti e levare le fraudi e di verificare se l’oro di fori città avesse ventuno carati e non essendo di Carati vent’uno, non ossi vendere tali opere, ne in bottega, ne in Fera8, et essendo avvertiti dal detto Consolo, e quelli venderanno, se li habbiano rompere l’opere per il Consolo, e Consigliere”. Accertata la consistenza del saldo numerario, ogni anno il console uscente ed il consigliere prelevavano dalla cassa la terza parte in compenso “per le raggioni delli travagli, e tempo perso in fare le stime, et le altre due parte insieme con gl’altri denari entrati per altre cause si terranno in detta Cassa”, che si consegnava al nuovo console. Altro compito del console consisteva nella spartizione del numerario della cassa in tre parti uguali: una destinata alle messe, un’altra “al maritaggio di Orfanelle Figlie dell’arte, per subvenzioni delli poveri, e vecchi dell’arte nelle loro necessità” ed il resto per generiche necessità “come per fare il Cilio9, comprar torcie, far panni, caxi (casse) e così simili” (capitolo 3°). Nel dicembre 1613, i Capitoli vennero sottoposti all’approvazione viceregia su richiesta della maestranza, che li considerava validi e conformi “omni futuro tempore e che si habbiano inviolabilmente da osservare”. La risposta di Pedro Téllez Giròn, terzo duca di Ossuna e vicerè di Filippo II di Sicilia, arrivò sei mesi dopo: il 2 giugno 1614, il vicerè ratificò i capitoli e ordinò ai giurati di farli osservare “fuorché il duodecimo che noi quelli cossi per la presente vi confirmamo, laudamo et approbamo e validamo”10. I capitoli subirono un’ulteriore revisione il 13 novembre 1662, quando i mastri modificarono le norme sull’esazione per l’esame di mastro forestiero, che era obbligato a prestare una pleggeria di 100 onze, quelle sul comportamento dei mastri presenti nella fiera di agosto. Con bando emanato l’11 aprile 1671, Claudio la Moral, principe di Lignè e viceré di Sicilia, concesse ai gioiellieri ed orafi trapanesi, “Consulibus Artium Ioilleriorum et Aurificium”, di “abbullare” qualsiasi loro manufatto con il punzone “seu bulla” delle iniziali del nome e cognome del console, con il punzone e le iniziali del mastro artefice dell’opera da porsi a fianco del marchio distintivo di Trapani con la sua falce e dicitura “DVI” (Drepanum Urbs Invictissima)11. Nel 1693, riflettendo su probabili frodi perpetrate da mastri circa la qualità dell’argento utilizzato, Giovanni Francesco Paceco, principe d’Uzeda emanava il decreto con cui imponeva l’uso di “una placchetta campione d’argento” ad ogni console argentiere di principale città di Trapani, sede di Secrezia. In particolare, il vicerè obbligava il console a dichiarare col campione il giusto peso d’argento puro, l’iniziale del suo nome e cognome, il prezzo corrente di mercato e il segno della città d’origine. La placcatura doveva prodursi annualmente in settembre, mese d’inizio di una nuova indizione, con la supervisione, il controllo e la responsabilità del secreto, in ottemperanza alle formali prove di saggio della coppella, ovvero dell’argento spogliato della lega e pesato per ricavare il titolo al fine della certezza dell’intrinseco valore bollato. Un’ulteriore considerazione è da farsi in merito alla nomina dei consoli. Nel 1740, esercitava la carica Vincenzo lo Iacono. Seguirono i consoli, Giovanni Battista Porcello (1741), Vincenzo lo Iacono (1742), Giovanni Battista Porcello (1743), Ottavio Martinez (1744), Alessandro Porrata (1745), Vincenzo lo Iacono (1746), Giovanni Battista Porcello (1747), Ottavio Martinez (1748), Carlo Caraffa (1749), Ottavio Martinez (1750), Matteo Buzzo (1751), Carlo Caraffa (1752), Giuseppe Piazza (1753), Carlo Caraffa (1754), Angelo la Monica (1755), Nicolò Campaniolo (1756), Giuseppe Piazza (1757), Carlo Caraffa (1758), Domenico Rizzo (1759-1760). Notiamo che nel corso di nove anni di consolato la maestranza degli argentieri eleggeva Carlo Caraffa per quattro volte e per le altre tre, Vincenzo lo Iacono, Giovanni Battista Porcello ed Ottavio Martinez. Compare per la prima volta il nome di Giuseppe Piazza, console nel 1753, ritenuto autore di tanti oggetti argentei d’alcuni gruppi dei Misteri di Trapani. Ritornando ai Capitoli, il 13 gennaio 1754, la maggior parte degli orefici ed argentieri comunicarono ai senatori alcune aggiunte alla versione del 1612. Le addizioni concernevano l’esazione del diritto d’esame pagato dal lavorante e riscosso dal console e consigliere, la concessione della licenza del mastro per aprire bottega, l’esercizio della baracca in fiera e il carato delle opere lavorate12. Il 7 marzo 1756, ben sapendo che “avanzandosi l’età e conseguentemente oscurandosi la vista, o’ cascando ammalati (ritrovandosi poveri) è questi viene mancando il procaccio, o’ per evitare, che j sudetti per lo sostentamento andassero mendicando, come pure volendo provedere alle Figlie Vergini o’ d’età Nubili delli Orefici et Arginteri, et a tutt’altre occorenze della medema Arte”, con lo “Stabilimento degli Orafi ed Argentieri” inserivano diverse integrazioni al capitolo del 1612. Solennemente acclamavano “San Luiggi”, ovvero sant’Eligio vescovo di Noyon come loro protettore (la cui ricorrenza si celebrava il primo dicembre)13 e disponevano la raccolta dei fondi necessari per “uscire il Mistero, Cereo, è Bara di detta loro Arte”.
Nello “stabilimento” si sancisce inoltre la costruzione di una nuova cassa con quattro chiusure essendo la precedente di due serrature andata “depersa”, in tal modo, il nuovo consigliere Giuseppe Piazza prometteva di farla costruire al costo non eccedente tre onze (l’equivalente del salario mensile di qualsiasi mastro di quel tempo), le cui chiavi si affidavano “in potere del Console di quel tempo, altra del Console predecessore, et altra due in potere ognuna di la davano di dui deputati è detta Cassa rinata con detto denaro et altro recoligendo in potere d’un Tesorero”. Tra il 1754 e il 1756, si operarono alcuni aggiornamenti di materia economica per incrementare il fondo cassa. Si obbligò ciascun console in carica e nel corso di cinque anni al versamento d’otto onze annuali (due onze a trimestre) e d’altre sei (un’onza e 15 tarì a trimestre) raccolte dagli incassi di sanzioni e di bollature. Altro denaro sarebbe pervenuto in cassa dalla tassazione degli esami di mastro dell’arte. Il candidato al titolo di mastro argentiere avrebbe versato 2 onze per sostenere l’esame e non i consueti 12 tarì, con un incremento per la cassa di 48 tarì ovvero di 1 onza e 18 tarì14. In più, il mastro che non era figlio d’arte doveva contribuire con 6 onze per ottenere la “licenza” d’aprire bottega, vale a dire l’equivalente delle onze annuali che versava il console dal raggranellare di sanzioni e bollature, con un aggravio di spesa di 4 onze, 29 tarì e 19 grani rispetto ad 1 onza e 1 grano chieste nel 1612, in pratica con incremento di cinque volte. Inoltre, si abolì la spartizione del denaro tra il console e il consigliere uscente. In tal modo si mirava ad accumulare in breve tempo un capitale di circa 100 onze da investire in rendite prediali e censi che comportavano interessi annuali anche del 10% devoluti in beneficio e cura degli orefici ammalati, per il loro seppellimento forse non ben garantito dal Pio Monte di Pietà15. Sei onze si accantonavano per gli orefici indigenti, cifra che si elargiva “ne’ giorni di Carnovale, Pasqua di Resurrezione, è Natività di Nostro Signore, et in altre occorrenze”. Una parte degli introiti derivanti da rendite capitalizzate era destinata al matrimonio di “qualche Donzella Vergine figlia Orfana di età Nubile de’ defonti di detta Arte”, il cui matrimonio si celebrava il giorno del “Glorioso San Luiggi, è nell’Altare della Chiesa dove si celebrerà bussolo, et imbussolarsi innanti detto Altare tutte le figlie vergini orfane d’età nubile”. Alla donzella, “che si volesse Monacare in clausura di qualsisia Monastero”, si concedeva una elemosina. Altre norme sussidiare furono riviste e ratificate dai senatori, il 25 marzo 176016. Infine, con la Rathificatio Capitulorum del 16 gennaio 1765, i deputati dell’arte aggiunsero altri commi allo statuto del 1756. Nello studio del notaio Vincenzo Caraffa il console Angelo la Monica, il consigliere Giovanni Porrata, gli “aurificibus et arginteribus” stabilirono l’aumento degli introiti a carico dei garzoni che passavano al “lavorantato” e dei lavoranti che completavano il ciclo del praticantato. Per la prima volta si apprende l’età prescritta a poter esercitare il compito di deputato, fissata in anni trenta, dopo aver superato il praticantato ed aver lavorato per più anni da “mastro”. Dunque nel XVIII secolo l’arte orafa di Trapani, e non più prettamente l’argentiera, è descritta nei transunti e scritture notarili riguardante li estimi di jogali elencati con doviziosa precisione, in ogni singolo manufatto o monile aureo. Non basterebbe un voluminoso fascicolo a contenere le descrizioni dei manufatti annotati con perseveranza nei libri dell’arte. Per mera curiosità si ricorda che sul finire del Settecento, in alcuni contratti dotali si elencarono: “un pajo di pendenti alla americana di diamanti bozzetti a concia d’Olanda con suo smalto blù, diamanti di peso carati 13 circa” del valore stimato dal console Vito Parisi in 123 onze e 15 tarì, pervenuto a Nicasio Adragna come dote della figlia di suocero Giuseppe Malato. Un anello “a due giro di brillanti con zaffiro nel mezzo legato d’oro per 80 onze”, donato dal ciantro Diego De Luca al convento del Carmelo. Per avere un’idea del valore dei riferiti preziosi rammentiamo che lo scultore trapanese Domenico Nolfo percepiva dalla Venerabile Compagnia della Pietà di Monte di San Giuliano (Erice) appena 20 onze per aver costruito il “Mistero della Coronazione di spine”. Ciò dimostra che le 123 onze pagate dal capitano del porto, Giuseppe Malato, equivalevano mediamente al costo della realizzazione di sei gruppi scultorei della processione. In seguito all’ingerenza delle maestranze nella sommossa palermitana del 1820 fomentata dall’aristocrazia locale che rivendicava l’applicazione dell’articolo 11 della costituzione del 1812 (soppressa da Ferdinando I di Borbone) per riottenere i privilegi decaduti, con reale rescritto del 1822, Niccolò Filingeri, principe di Cutò, luogotenente di Sicilia, pose per sempre il rimedio a tali disordini abolendo le maestranze e di conseguenza il loro jus corporativo17. Tuttavia, tale azione non significò per le maestranze trapanesi il subitaneo abbandono d’alcune norme che regolavano i mestieri, il garzonato e l’intera gestione, consuetudini che rimanevano ancora per anni ancorate ai vecchi capitoli, sebbene fosse stato operato il riassetto amministrativo e politico del Regno iniziato nel 1815. Con l’istituzione degli Ospizi e delle Opere Pie e Laicali cominciò ad affievolirsi l’attiva partecipazione dei ceti alle confraternite e alle congregazioni sottoposte a controllo dell’Intendenza e dei Vescovadi locali. Per dare un’assicurazione alla “bontà del metallo d’oro e d’argento” pare frodata dai alcuni mastri nella manipolazione del titolo, fu emanato il regio decreto del 14 aprile 1826, con il quale si istituì la cosiddetta “Officina della Garanzia” sui lavorati in oro e argento nel locale della zecca di Palermo, poi operativa in Catania, Messina, Siracusa e Trapani. Conseguentemente, sulle opere argentee ed orafe realizzate s’impose l’utilizzo di un nuovo punzone o bollo di garanzia con la testa di Cerere, valido in tutta la Sicilia. Si modificò il bollo del mastro con un emblema scelto a suo gradimento recante le iniziali del nome e cognome e si attuò l’uso del bollo del saggiatore18.Nel 1829, per prevenire l’acquisto d’oggetti “sospetti di esser furtivo”, si applicò l’ordinanza sulla contrattazione degli oggetti d’oro e d’argento e d’altre materie preziose, con cui si impose ai gioiellieri, orafi ed argentieri la tenuta di un registro vidimato dall’ispettore commissario, dove si annotavano le generalità dei fornitori e l’entità della contrattazione. Per la compera diretta di preziosi da compiersi fuori sede, il mastro era obbligato a chiedere il permesso “per la compera” e comunicare quanto venduto in quella città al funzionario di Polizia a presentare i certificati ad una delle officine di garanzia per la corrispondente perizia dei saggi. Nel 1832 si pubblicò nel “Giornale d’Intendenza” di Trapani le “istruzioni per la restituzione de’ bolli de’ fabbricanti de’ lavori di oro, d’argento e delle loro patenti” già emanate con decreto del 14 aprile 1826. Si richiamò l’attenzione sugli articoli 63 e 64, riguardo alla distruzione del bollo presso l’Officina della Garanzia, per i casi di premorienza di un mastro orefice o argentiere (a cura degli eredi) e per momentanea circostanza d’assenza dal lavoro di oltre sei mesi di qualsiasi mastro. Si ampliò quanto emanato con l’introduzione di nove altri articoli al titolo ottavo del decreto. Si addossò ai sindaci la responsabilità della restituzione del bollo del mastro defunto nel comune di residenza entro un mese dal decesso per la distruzione e la rimessa della lamina di garanzia alla direzione generale e cancellazione del nominativo dal registro generale. Altresì, i sindaci erano vincolati a fornire notizia d’eventuale mastro sprovvisto di marchio che operasse nel comune di residenza.
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1 In particolare, si ricordano: il capitolo dei mastri cordai del 1606, il capitolo dei mastri calzolai del 1607, il capitolo dei mastri ferrari del 1610, il capitolo dei mastri argentieri del 1612, il capitolo dei “padruni navi”, capitani e marinai del 1613, il capitolo dei mastri lignarii del 1614, il capitolo dei custureri del 1618 e quello dei carrettieri del 1619.
2 L’esercizio di alcune maestranze che si svolgeva in diverse strade di Trapani è all’origine della loro nomenclatura attuale: ad esempio, Via delle Arti, Via dei Corallai, Via dei Tintori, Via degli Scarpari, Via dei Funai e Via degli Argentieri ed in ultimo, la Via Argenteria che ricorda la presenza di un’antica miniera. In merito, il celebre storico Giuseppe Maria Ferro rammenta che “la Natura ci svela quasi chiaramente le sue ricchezze, e ne manifesta i segni, in una pianura discosta da Trapani due terzi di lega incirca. Questa contrada per la preziosità del metallo che asconde nelle sue viscere, acquistassi il nome di Argenteria. Si sa che questa miniera serpeggia nelle radici dell’Erice, tuttoché non sia impiegata alcuna scorta infallibile, per marcare la sua sotterranea geografia” (GIUSEPPE MARIA FERRO, Guida per gli stranieri in Trapani, 1826, Mannone e Solina p.143).
3 Si ricorda la prestazione di Matteo Bavera che nel 1609 s’impegnò a realizzare una corona d’oro per il capo della “Gloriosissima Vergine Madre Maria Annunziata extra moenia”, su commissione di Caterina Gandolfo Vincenzo, monaca terziaria dell’ordine di Santa Maria dell’Annunziata. L’artista accettò la committenza secondo il disegno e modello presentato dalla monaca e con la scadenza di un anno e sei mesi, al prezzo convenuto di 20 onze, come da stima di due mastri orefici di Palermo. La commissione fu rogata da Melchiorre Castiglione il 24 novembre dello stesso anno. Ancora, si rammenta l’opera di Domenico Rizzo e Bernardo Zorba, consoli ed orefici trapanesi, i quali, su commissione di Vincenzo Foderà, lettore del convento di San Domenico di Marsala, realizzarono “ut vulgo detto fabricare un Lampero d’argento di Bolla di peso Libre duodeci in circa del Modello secondo il Lampero di questo Venerabile Collegio della Compagnia di Gesù”, in apoca del 26 aprile 1765 del notaio Nicolò Badalucco (Archivio di Stato Trapani).
4 “Gli Orefici ed i Giojellieri molto prattici del Disegno lavorano ogni sorte di argento e d’Oro. Colle loro ricche manifatture molto conferiscono al Commercio. Questo Mestiere assai fiorisce in Trapani. Siccome provvede di Artefici le Città convicine di Salemi, Alcamo, Marsala, Mazzara e Monte di S. Giuliano. Anzi ne tempi proprij gli Argentieri escono per le Fiere, girano le Città e provvedono tutti i Paesi, ove passano del bisogne vole. Il Console di Trapani tiene il Privilegio di bollare tutte le Manifatture di argento, e d’oro, che si lavorano in tutto il Valle di Mazzara. Furono celebri in questo Mestiere cioè Tommaso Sole ed Andrea Daidone, che inventarono il Rilievo che chiamano Riporto. Alcuni di questi virtuosi s’impiegano a lavorar col Burino, non solo le Manifatture d’Argento, ma ancora per le Incisioni delle Stampe e de’ Sigilli, tra quali và molto rinomato il Signor Antonio Scalabrino. Aprono al presente da deciotto Botteghe, e tutti fanno a gara nell’Augumentare il Commercio”. (BEGNINO DA SANTA CATERINA, Trapani Profana (1810), Biblioteca Fardelliana, ms. 199).
5 Alle soglie del 1800, si riscontra in diverse scritture archivistiche che persiste va a Trapani la contrattazione di schiavi berberi o cristiani. Per quel che concerne le maestranze, il console obbligava l’associato a non tramandare l’arte allo schiavo, il cui compito era relegato solamente nell’espletamento dei compiti e dei servizi giornalieri assegnati, quali: il trasporto degli strumenti, delle attrezzature e dei cosiddetti letti di campo indispensabili nelle baracche delle fiere cittadine ed altrove. Ricordiamo che lo schiavo, al pari di qualsiasi proprietà, era dichiarato nei Fuochi delle Anime, cioè nel censimento periodicamente disposto dal fisco regio.
6 Si tratta dell’utilizzo delle calie, cioè degli scamuzzoli e dei rimasugli di minutissime particelle di metallo chesi staccavano durante la lavorazione.
7 “Una regolamentazione scritta dell’attività si trova già negli statuti di Roma del 1358, in cui si stabiliva che l’argento do vesse avere un “punzone” di garanzia, cioè un bollo. Forme più severe di controllo si ebbero però solo dagli inizi del Cinquecento: da allora orefici ed argentieri furono obbligati ad apporre su tutti gli oggetti prodotti una bollatura del titolo, controllata poi da una apposita commissione che doveva giudicare, oltre alla qualità delle opere e alle contraffazioni, anche l’abilità degli aspiranti maestri orafi, nella prova che si svolgeva dopo un tirocinio a Roma di almeno tre anni”.
8 L’istituzione della fiera a Trapani avvenne nel 1299 e fuori del centro abitato, su assegnazione di Federico III d’Aragona. Nel 1315, questo sovrano spostò da aprile ad agosto il suo svolgimento sul piano dell’Annunziata, con inizio il giorno otto fino al ventiquattro del medesimo mese. (LEONARDO ORLANDINI, Trapani succintamente descritta, Palermo, 1618). L’attività della fiera si svolse regolarmente, fino alla sospensione di circa un sessantennio dal 1490 al 1550, a causa dal contagio della peste e per altri inconvenienti. Nel 1550 il vicerè Giovanni De Vega, nel corso della sua permanenza a Trapani, la ripristinava franca del pagamento della gabella regia di 50 scudi, ovvero di 20 onze siciliane e su istanza del carmelitano padre Aloisio, priore del convento dell’Annunziata, la impiantava: “Dentro la cità a lo entrare della porta di menzo jorno di essa cità, per comodo dei de voti e per il gran pericolo che vi era di li corsali che pozano sopravvenire con danno ed interesse de li barraccheri”. (CARLO GUIDA, Trapani durante il governo del vicerè Giovanni De Vega, Trapani 1930, ristampa anastatica a cura di Michele Megale, “Centro provinciale studi G. Pastore”). Nel 1573 gli argentieri espone vano nella fiera d’agosto i loro manufatti insieme ai “panieri, cauzitteri, merceri, corallari, vetrari, gipponari, ferrari, spatari, corviseri, cordari, stagnatari, confitteri, cobaitari, sfinchiari, perfumeri, droherij, zafaranari”. Lo stesso anno, il Consiglio delle Baracche stabiliva che per l’occupazione del suolo fieristico “li arginteri hagino di pagari a voluntà di li magnifici mastri di fera di modo chi non exceda la summa di tarì dudichi per ogni barracca ita chi in una barracca non possa stari più di un mastro” (Archivio del Senato di Trapani, Carte sul convento dell’Annunziata; Biblioteca Fardelliana, busta 751, fascicoli 13,14,15). Le norme prescritte nel bando del 1556 si mantennero inalterate nel corso degli anni successivi: in quello del 9 agosto 1726, i senatori stabilirono che “tutti quelli maestri Arginteri che haviranno a’ vendere in questa fera, oro et argento, non possono questo vendere se prima non ha vistolo e revisato dalli deputati di Arginteri di questa Città, quali deputati siano obligati et incondizionati fatta la detta revista dare la distinta relattione con il nome e cognome del mastro all’Illustre Senato ad effetto di non potersi usare frode nessuna, sotto pena a’ quelli che controverranno di tarì 4 per ogni uno di loro d’applicarsi ad arbitrio dell’Illustre Senato”. (Archivio del Senato di Trapani, Bandi, Biblioteca Fardelliana registro 416).
9 “Uno de’ doni della SS. Nunciata si è il Cilio, di cui derassi qui breve ragguaglio. Il re Fiderico veggendo la malagevolezza incontratasi nella fabrica del Tempio, per farlo in breve tempo terminare, comandò farsi in ogni sollennità d’essa a 15 d’Agosto de tutti i Maestri delle arti una oblazione, come primitie del lor annuo lucro di quanti denari ciascun d’essi pote va acquistare in un dì solo, ordinando in altre, che tutti nel dì predetto si raccogliessero sotto l’insegna de’ Santi Padroni dell’arti loro, e così processionalmente si conferissero alla Porta Reale e quindi alla Nunciata, per farvi detta oblazione” (VINCENZO NOBILE, Il tesoro nascosto, Palermo, 1698, Biblioteca Fardelliana, foglio 862).
10 Da “Archivio del Senato di Trapani – Copialettere 59”, Biblioteca Fardelliana.
11 Ivi, Copialettere 108, Biblioteca Fardelliana.
12 Ivi, Copialettere 179, Biblioteca Fardelliana.
13 Sant’Eligio è anche Patrono dei fabbri, dei maniscalchi e dei veterinari.
14 La norma venne applicata con puntualità. Nella scrittura notarile del 7 dicembre 1803, il nuo vo tesoriere Matteo Mauro ricevette dal precedente tesoriere Vincenzo Genna la cassa con quattro chiavi contenente 86 onze e 17 tarì in contanti e 56 onze e 10 tarì in ricevute di denaro impiegato in rendite, oltre i capitoli dell’arte, il libro delle elezioni dei consoli, il libro della creazione degli ufficiali, il libro degli introiti ed esiti, i transunti delle elezioni, e una cassetta contenente i tre “splendori d’argento, di ponderis librarium trium et unciam sex de’ Personaggi Misterij eiusdem Artis”.
15 Il Pio Monte di Pietà fu istituito nel 1542 con lo scopo di assistere la misera gente e donare, anche con la raccolta d’elemosine de volute dai fedeli nelle chiese, una discreta dote alle gio vani orfane che si sposavano secondo una logica d’estrazione sociale. L’istituto fu amministrato da cinque rettori aristocratici, eletti per la prima volta nel 1545, ciascuno dei quali rappresentava uno dei cinque vecchi quartieri cittadini, vale a dire quello dei “Biscottari, della Giudecca, della Rua Nue va, della Loggia e delle Botteghelle ed esercitarono l’istituto proprio ordinato da diversi pii Testatori, che hanno disposto delle loro Eredità in vantaggio del Pio Monte ed in sollie vo delli Poveri”. Sul finire del XVIII secolo, i rettori poterono essere anche d’estrazione borghese e passarono da cinque a tre, in rappresentanza dei tre nuovi quartieri della città: quello di San Lorenzo, di San Nicola e di San Pietro.
16 Da “Archivio del Senato di Trapani – Copialettere 179”, Biblioteca Fardelliana. GIUSEPPE FARDELLA DI TORREARSA, Annali della Invittissima e Fidelissima città di Trapani manoscritto del 1810, Biblioteca fardelliana di Trapani. NICOLÒ MARIA BURGIO E CLAVICA appunta nel suo Diario dell’Invittissima e fidelessima Città di Trapani che comincia dall’anno 1779, manoscritto del 1832, Biblioteca Fardelliana.
17 FRANCESCO DIAS, nelle Collezioni di reali rescritti, regolamenti, istruzioni, ministeriali e sovrane risoluzioni (vol. III, Napoli 1856) riporta il reale rescritto del 13 marzo 1822. In un passo saliente, si afferma: “Partecipato dal ministero per gli affari di Sicilia a quel luogotenente generale, col quale si aboliscono tutte le maestranze e fatte le corporazioni di artieri in quei reali domini, nel Consiglio di Stato di ieri la M. S. cui rassegnai il contenuto nel rapporto di V. E. del 25 dello scorso febbraio, nel quale ha ella fatto rilevare quanto siano pericolose per la pubblica tranquillità le corporazioni di coteste maestranze; uniformandosi al di Lei avviso, è venuta sovranamente ad ordinare, che restino soppressi i consolati di tutte le maestranze di cotesta capitale, e che siano abolite le particolari corporazioni di cotesti artieri, con dovere V.E. invigilare, onde abbia piena e esatta esecuzione questa sovrana determinazione. Nel real nome partecipo ciò a V. E. perché si serva farne l’uso corrispondente di risulta”.
18 Come annotato da Giovanni Evangelista De Blasi, “siffatte officine regolando lo esame dei lavori e seconda dei titoli che i metalli d’oro e d’argento assumono, poterono semplicemente ammettere la tolleranza di tre millesimi pel primo, e di cinque pel secondo. La garenzia poi dei titoli delle opere fu assicurata dai marchii o bolli che vennero impressi e i fabbricanti dovettero però munirsi d’una patente rilasciata dalla direzione generale dei rami e dritti diversi senza pagamento” (GIOVANNI EVANGELISTA DE BLASI E GAMBACORTA, Storia cronologica dei vicerè, luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia, Palermo, 1867).