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Oro Argento Preziosi

Nei primi decenni del XVII secolo, diversi mastri si radunarono per costituire gli statuti dei propri ceti, detti capitoli, con i quali s’imposero una regola e disciplinarono la loro arte allora tràdita oralmente con usi e consuetudini ed esercitata in specifiche zone della città. [1]

Nel corso degli anni alcune norme dei capitoli di alcuni ceti si rivelarono restrittive, tanto da originare limitazioni al libero commercio e all’indipendente attività imprenditoriale d’alcuni consociati. Nel marzo 1822 si sciolsero le corporazioni che riunivano le varie arti, i cui rappresentanti avevano acquisito una forza politica al pari di quella esercitata dai patrizi e dall’agiata borghesia. Da allora, cominciava ad affievolirsi l’attiva partecipazione dei ceti nelle confraternite religiose e il loro intervento negli atti civili e nelle processioni religiose [2] e con l’espansione del mercato e l’affermarsi di nuove tecniche produttive e tecnologiche, iniziava il loro declino. In genere, a capo d’ogni ceto od arte presiedeva il console, sovente l’artigiano più anziano coadiuvato dal consigliere. Entrambi esercitavano ed applicavano le regole dei capitoli in difesa degli associati, talvolta somministrando loro pene pecuniarie per farle rispettare. Ambedue erano assistiti dai rettori e dal tesoriere, quest’ultimo esperto nel computo e nella compilazione della rubrica (che conteneva i nomi degli associati) e custode del denaro della Cassa. Tra tante arti praticate in città quella dell’orefice era difficile ed attraente. Parecchi mastri orafi lavorarono per tanti anni i preziosi e crearono molte opere con l’oro e l’argento, spesso monili ed oggetti che costituirono regali per le nascite, cresime e matrimoni, oggetti che a volte, costituirono un bene di rifugio su cui poter trarre immediato denaro per le esigenze straordinarie della famiglia. Gli argentieri trapanesi approvarono il loro capitolo forse con ritardo rispetto ai colleghi della penisola, i quali già operavano con i propri regolamenti. Leggendo i capitoli degli argentieri del 1612 e lo stabilimento degli orefici ed argentieri del 1756 notiamo che la parola argentieri, a distanza di centoquarantaquattro anni era posta dopo orefici quasi a significare che in quello spazio temporale gli artigiani in un primo tempo lavorassero più l’argento che l’oro e anni dopo, si avvezzassero a manipolare più l’oro che l’argento essendo il primo più redditizio ed artisticamente molto ambìto dai patrizi, dalle alte cariche civili e militari e soprattutto ecclesiastiche. [4] Nel capitolo accettato dagli argentieri ed orafi ed approvato dai senatori, non si dette alcun risalto all’apprezzabile capacità degli stessi nell’incastrare le pietre d’acqua marina, di pasta, doppiette false, in tutte le sorti d’ingasto ed anche il corallo, la cui abilità, professionalità e lavorazione divenne precipua prerogativa del gioielliere, ricercato artista ed artefice della frivola moda orafa settecentesca. Da buoni e rispettosi cristiani, prima di redigere il capitolo, gli argentieri ed orefici elessero per protettore dell’arte le anime del Santo Purgatorio, con altare existente nella Chiesa di San Giovanni Battista [5] di essa Città. Ciò dimostra che in quella chiesa esistesse una cappella dove si officiavano le messe e si raccoglievano in preghiera. Prima di redigere le norme statutarie, gli associati concordarono la procedura d’elezione del console e del consigliere e stabilirono le regole comportamentali. Ritennero opportuno, forse per evitare un abuso nei poteri o nell’autorità, che il consigliere subentrasse al console trascorso un anno dalla carica e cossì si anderà facendo perpetuamente conforme si ha costumato sempre nell’arte. L’elezione doveva avvenire nell’enunciata chiesa la prima domenica dopo Pasqua, subito dopo aver cantato il Veni Creator Spiritus, [6] ed alla fine della creazione del Consigliere si farà cantare il Te Deum Laudamus. [7]

Il mercoledì dell’undici aprile 1612, nello studio del notaio Francesco Gioeni, gli orefici ed argentieri approvavano ventuno articoli, di cui una parte si rivelava a contenuto ispettivo e selettivo per la comune continuità dell’arte. Notiamo un carattere selettivo nella disciplina dell’apprendistato quadriennale del garzone e nel momento in cui lo stesso diventava mastro ed impiantava la buttega, o anche per lavorare per se solo. L’accesso del giovane di bottega nell’associazione avveniva sovente tramite la mediazione del padre o di un affiliato. Il ragazzo, forse appena d’otto anni abbandonava il gioco e la strada per vivere la nuova esperienza lavorativa con il mastro e si votava ad apprendere il mestiere che avrebbe esercitato per tutta la vita. Il mastro curava la sua educazione e l’istruzione e da buon padre, non gli lesinava scapaccioni ogni qual volta lo ritenesse necessario per il suo bene. Durante l’apprendistato e poi nell’ordinaria attività giornaliera, il pratico orefice creava pregiati manufatti, degni di ammirazione e a volte capolavori nati dalla sua fantasiosa creatività. Per acquisire il titolo di mastro, l’apprendista superava un esigente esame predisposto dal console e solo allora era riconosciuto virtuoso e sufficiente nell’arte. Divenuto mastro ritirava uno scritto di licentia d’esercizio, dietro pagamento di una contribuzione destinata alla Cassa. Da quel momento s’impegnava a leggere i Capituli per saper l’osservanzia dell’arte e ad usare il sigillo. Solo i figli privilegiati dei maestri erano sollevati da tale impegno, forse perché apprendevano l’arte direttamente dal “padre-maestro” e potevano mettere bottega liberamente senza pagare cosa alcuna. Diversamente da questi, l’orefice straniero per esercitare l’arte doveva prestare una pleggeria di cento onze, cioè doveva dare una garanzia simile all’odierna malleveria. Con i consecutivi articoli s’intimava agli associati di non divulgare l’arte a nixiuno scavo, [8] tanto suo proprio quanto di altri per non perdere il Scavo ed evitare di darlo in proprietà al Regio Fisco et cossì anco ad altri personi vili. E si applicava anche un divieto e una discriminante razziale ai lavoranti Giudei reputati responsabili di migliaia di vituperij alle cose, ai quali si prescriveva di non lavorare Calice, Croce ed altre cose, che servino per la Chiesa, in aprobio della nostra Santa Fede Catholica. [9] E forse per evitare dei sacrilegi s’obbligava argentieri ed orafi a stare nel timore di nostro Signore Iddio e nella giustitia. E di eseguire i lavori sia d’oro che d’argento e l’incastonatura delle pietre preziose secondo i dettami dell’arte, poiché se il console o il consigliere avesse trovato qualche fraude o’ mancamento contrario alli presenti Capituli, erano autorizzati a rompere l’opere, e far pagare li peni, conforme si have ordinato e depositare gli introiti nella Cassa. La Cassa conteneva i denari dell’arte ed era chiusa con due chiavi, una in possesso del console e l’altra del consigliere. In tal modo né l’uno né l’altro poteva trafugarlo anche se era annotato nell’apposito libro mastro. In questo libro si scriveva la contribuzione degli associati ed in una specifica sezione si annotava l’entrata delle stime, le valutazioni dei gioielli, gli oggetti preziosi e ancora l’introito incassato dall’applicazione delle multe. A fine anno, accertata la consistenza del saldo numerario, il console uscente ed il consigliere ritiravano la terza parte per le raggioni delli travagli, e tempo perso in fare le stime, et le altre due parte insieme con gl’altri denari entrati per altre cause si terranno in detta Cassa, che restava in custodia al nuovo console. Quest’ultimo periodicamente doveva spartire il numerario della cassa in tre parti uguali. Una parte si destinava alle messe, altra per maritaggio di Orfanelle Figlie dell’arte, e per subvenzioni delli poveri, e vecchi dell’arte nelle loro necessità ed il resto per generiche necessità come per fare il Cilio, comprar torcie, far panni caxi (casse) e così simili. Al console era riservato il pieno diritto di operare le estime, cioè le valutazioni dei jogali, ori et argenti e d’eseguirle personalmente e farle annotare nella lista particolare in un libro con la giornata e li nomi di contrahenti, acciò se ni possi far fede, quando bisognasse. In genere si pesavano [10] e si valutavano i preziosi apportati dal padre in dote alla figlia e consegnati al genero, che ne diventata il custode. Alla sua morte, la sposa con l’atto di retenzione della dote, n’entrava in pieno possesso estraendola dal patrimonio ereditario familiare e in quell’occasione si procedeva ad inventariare e dare una nuova stima.

I consoli approntavano grande interesse nella stima delle pietre preziose e ne consideravano la rifinitura, la trasparenza, la lucentezza, il colore ed il peso, elementi che determinavano il loro valore commerciale. Ed applicarono con inflessibilità il nono articolo che stabiliva la lavorazione dell’oro a ventuno carati, i punti e la bolla per bollare l’argento di marca, l’aggiustare dei pesi, l’addorare e le opere di filo. Con quell’articolo si attestava la manipolazione dell’oro a 875 millesimi, [11] pena la distruzione dell’opera e la sanzione di due onze per la prima infrazione, elevata a quattro la successiva fino all’espulsione dall’arte per la terza volta. Per evitare un simile modo di agire, s’invitavano i lavoranti a sottoporre l’oro al “tatto” del Consulo, acciò lo tocchi se sia di Carati ventiuno, et approbata tal massa, lo possino liberamente lavorare. Oltremodo, si propose di far venire dalla Città di Napoli li punti dell’oro conforme all’uso di quella Città, li quali punti si habiano da conservare in potere del Consolo per poter fare li paragoni dell’oro lavorato e da lavorarsi. E si decise di bollare, seu improntare tutte le opere di argento fatte, e che si faranno, la qual bolla anco l’habbia da tenere il detto Consolo. In questa norma notiamo che la bollatura permetteva al console di esercitare controlli e di garantire, nell’interesse comune, l’esercizio di un copyright con il quale si evitava la contraffazione e si tutelava l’opera d’ingegno del mastro. L’artista punzonava, vale a dire bollava o marchiava con il sigillo la sua opera [12] che doveva essere conforme al titolo di ventuno carati. Il sigillo era registrato e depositato con le iniziali del mastro e del logo DVI – Drepanum Urbs Invictissima. La certezza del peso era garantita dalla libbra bollata e dai suoi sottomultipli, cioè i trappesi e cocci, anch’essi bollati e custoditi nella Cassa dell’arte, con li quali pesi si habiano da giustare tutti li pesi della mastranza per il Consulo, e Consigliere, e così si debia fare di sei mesi in sei mesi. E per maggior precauzione si prescrisse di controllare le gemme, l’oro e l’argento lavorato proveniente di fori, convenendo di star con gli occhi aperti e levare le fraudi e di verificare se l’oro di fori città avesse ventuno carati e non essendo di Carati vent’uno, non ossi vendere tali opere, ne in bottega, ne in Fera, et essendo avvertiti dal detto Consolo, e quelli venderanno, se li habbiano rompere l’opere per il Consolo, e Consigliere. In una trascrizione delle lettere del Senato [13] scopriamo che un console orafo, nell’interesse di preservare e conservare i dettami dell’arte, operava un atteggiamento di sospetto ed ispettivo nei confronti di un gioielliere napoletano. Con una petizione, un professore giojelliere indirizzava al governatore della corporazione dell’arte di Napoli, una lamentela riguardo il comportamento poco corretto ed accogliente riservatogli dal console degli orefici trapanesi, il quale, a suo giudizio, non voleva discernere l’esercizio dell’arte di un gioielliere da quella dell’orafo. Nella lettera, il professore rimarcava anche il suo premeditato dotto rifiuto e volontà a non voler sottostare alla giurisdizione di quel console.

Certifico io cuì sottoscritto Giojelliere di ambe le Maestà delle Due Sicilie / Dio sempre guardi / come il Signor Don Vincenzo Genova della Città di Trapani esser vero Professore Giojelliere per aver’egli fatto molti, e diversi lavori di Gioje, come anche esser Negoziante di Gioje, per aver il medemo fatto continuamente sta’ facendo compre, e vendite di tal genere, e tutto ciò per anni dieci continui ch’è stato in questa Capitale a lavorare, e fare il Negoziante; E però a tenore delle Leggi, e Costituzioni di Napoli, qualunque Professore Giojelliere non sta’, né deve stare sottoposto a verun Console della Nobil’Arte degli Orefici, per esser’un cotal Professione totalmente diversa dalli Lavori d’Oro, e di Argento; e per esser la verità; ho firmato di mia propria mano il presente certificato, e suggellato col mio suggello; Napoli 14 Luglio mille settecento settantacinque dico 1775

Forse l’incorruttibile console trapanese applicava all’esercizio dell’arte del professore le disposizioni sancite in una prammatica pubblicata a Palermo il 31 dicembre 1602, con la quale si disciplinava l’acquisto e la vendita dell’oro, dell’argento, di gioielli ed il cui fine era quello di evitare una concorrenza sleale nel mercato, norme già contemplate nel ventesimo articolo del capitolo del 1612. Quattro mesi [14] dopo con lettera spedita da Palermo arrivava la risposta a Napoli. Nella lettera si affermava di ancorare l’arte del gioielliere alla giurisdizione del Senato trapanese.

Uniformandomi al sentimento che Vostra Signoria è venuta in antepormi colla sua rimostranza de’ 14 del corrente, informando sul ricorso fatto a Sua Maestà da Vincenzo Genova, che ha preteso di venir riputato in cotesta Città da Giojolliere; La prevengo in risposta, che dispenzia pure la esenzione del Giojelliere Genova da qualunque giurisdizione dal Console degli Orefici; restando sotto quella di cotesto Senato; E nostro Signore la feliciti. Palermo 22 Novembre 1775.

La disciplinata attività orafa consentiva a qualsiasi mastro di costituire società e di lavorare fora città ed approntare prestiti anche a colleghi forasteri. [15] Un altro atteggiamento ispettivo lo notiamo nell’articolo che disciplinava le opere di filo e l’addorare [16] l’argento che si statuiva farlo con oro di molitura. [17] In presenza d’argento senza merca, s’impose al mastro di mettere la bolla di questa Città, con pagare le solite ragioni al Consolo. Sia il console che consigliere partecipavano con gli altri ceti espositori nella fiera di mezz’agosto, (nella festività dell’Assunzione della Madonna alli 15. di Agosto) che solitamente si organizzava a tramontana delle mura del convento dei carmelitani extra moenia. La partecipazione del mastro avveniva per estrazione da un bussolo e allo stesso si assegnava la postazione detta baracca e si habbiano da contentare. [18] Trascorsi nove anni dalla stesura del capitolo, il sei aprile 1621 (tre giorni prima della processione dei Misteri e con atto redatto da Diego Martino Ximenes) gli orefici ed argentieri ebbero in concessione il mistero detto della licentia che domanda Cristo a Maria vergine, dalla Venerabile Società del Preziosismo Sangue di Cristo. Per volontà del console si considerava la determinante clausola al diritto continuato tempore che lo detto misterio della licentia abbia d’andare lo primo di tutti l’altri misterii et che sempre detti consuli et magisteri d’arginteri siano preferiti li primi di tutti l’altri misteri.

Nel 1756, avendosi dall’attuali Orefici, et Arginteri considerato quanto sia civile il suo Mestiere, altretanto perciò va di bisogno essere decorato il manutenimento, qual proviene da li esercizio della medema Arte Liberale, che non sempre può esercitarsi sì per essere dipendente dalla vista è chiarezza de le occhi, come dalla visil età, Onde avanzandosi l’età, e conseguentemente oscurandosi la vista, o’ cascando ammalati (ritrovandosi poveri) è questi viene mancando il procaccio, o’ per evitare, che j sudetti per lo sostentamento andassero mendicando, come pure volendo provedere alle Figlie Vergini o’ d’età Nubili delli Orefici et Arginteri, et a tutt’altre occorenze della medema Arte, inserivano un’integrazione all’antecedenti formati Capitoli. Nello stabilimento redatto dal notaio Gaspare Fiorentino il sei marzo, gli orefici stabilirono i comportamenti e le disposizioni riguardo la dotazione delle figlie nubili, la previdenza e l’officio del funerale dei colleghi deceduti, le cui norme forse non s’erano in precedenza rispettate appieno e necessitavano d’una nuova definizione. Quel giorno, Nicolò Campaniolo (console) Giuseppe Piazza (consigliere), Matteo Buzzo (console cessato) Francesco Lipari, Nicolò Lotta, Mario Parisi, Carlo Caraffa, Antonino Ettori, Nicolò Parisi, Francesco Buzzo, Bernardo Zorba, Giuseppe Santico, Michele Tombarello, Pietro Fontana, Ottavio Martines, Antonio Daidone, Giuseppe Anastasi, Tommaso Mauro, Giacomo Moncada, Girolamo Daidone, Melchiorre Pisciotta, Vito Caraffa, Vincenzo Parisi, Andrea Fiore (console cessato), Gaetano Alagna, Saverio Fontana, natale Daidone, Saverio Fiore e Angelo Sandias elessero Santo Luiggi Protettore della loro Arte Liberale, la cui festa si celebrava il primo dicembre. Inoltre stabilirono di sborsare de proprio, come sin oggi s’hà soluto fare tutte le spese annuali vi abbisognano, per fare la solennità di San Luiggi Protettore, è per uscire il Mistero, Cereo, è Bara di detta loro Arte. La prima importante disposizione riguarda la costruzione di una nuova cassa essendo la prima con due serrature andata depersa. Il nuovo consigliere Giuseppe Piazza ebbe l’incarico di far costruire una cassa con quattro serrature, che avrà nome la Cassa dell’arte liberale dell’Orefici et Arginteri, il cui costo non doveva superare tre onze e le cui chiavi si affidavano in potere del Console di quel tempo, altra del Console predecessore, et altra due in potere ognuna di la davano di dui deputati è detta Cassa rinata con detto denaro et altro recoligendo in potere d’un Tesorero. Si obbligava, altresì il console a versare per cinque anni otto onze per anno nella cassa più altre sei, che si dovevano reperire dagli introiti di sanzioni e bollature. Nello stesso tempo si aboliva la spartizione di una parte del denaro in cassa ripartito tra il Console è Consigliere come si dispone né precedenti Capitoli, quali in quanto riguardano al presente siano aboliti, è di niuno più vigore, per aver loro il presente stabilimento. Nel precedente capitolo non s’era stabilito nulla riguardo l’accudimento degli orefici ammalati e il loro seppellimento, essendo blandamente assistiti in quel periodo dalla Chiesa e da altri istituti di pubblica beneficenza, tra cui il Pio Monte di Pietà. [19] A riguardo, si decise di accantonare in cassa quella somma necessaria alla sepoltura in caso di Morte di qualche Orefice o’ Argintere sì Povero (come Commodo, cioè benestante) che neppure trovasi confrate d’alcuna Compagnia, in questo caso la Cassa fusse tenuta sepellirlo con spendere la somma di onze due, è non più, che se poi, si ritroverà confrate di qualche Compagnia, dalla quale deve seppellirsi, allora per decoro dell’arte, perché le Compagnie soglino fare Croce di rame, la Cassa fusse tenuta pagare le raggioni di croce d’argento. E si riservava anche un’altra porzione dei denari in suffraggio di quest’anima. Per gli orefici indigenti si destinava una contribuzione complessiva di sei onze, ovvero elemosina scaturente dall’impiego delle rendite, che si elargiva ne’ giorni di Carnovale, Pasqua di Resurrezione, è Natività di Nostro Signore, et in altre occorenze.

Una parte degli introiti derivanti dalle rendite capitalizzate si destinava per il maritaggio di qualche Donzella Vergine figlia Orfana di età Nubile de’ defonti di detta Arte liberale de le Orefici et Arginteri, il cui matrimonio si doveva celebrare nel giorno del Glorioso San Luiggi, è nell’Altare della Chiesa dove si celebrerà bussolo, et imbussolarsi innanti detto Altare tutte le figlie vergini orfane d’età nubile. A quella donzella che si volesse Monacare in clausura di qualsisia Monastero si concesse anche un’elemosina. Per racimolare del denaro e per ottemperare alle nuove norme di maritaggio e di assistenza, gli associati aumentarono la contribuzione dei lavoranti che chiedevano di sostenere l’esame per ottenere il titolo di mastro orefice, obbligandoli a pagare due onze è non già di soli tarì dodici come per il passato e per quelli che volevano aprire bottega per se stessi allora (non essendo figlio dell’arte) sia doveroso pagare è depositare a’ detta Cassa di sopra formata la somma di onze sei, e non di sola onza una e grani uno come per l’addietro. E sancirono la regola di facilitazione nell’ingresso di un giovane nella loro arte, se questi si accasasse con una figlia d’orefice, o’ argintere. A quali presenti nuovi Capitoli come sopra a’ tenore del vigesimo primo Capitolo disposto ne’ precedenti Capitoli di detta Arte, si potrà aggiugnersi, o’ togliersi cosa, secondo ricercheranno le circostanze dell’arte il beneficio di questa, come per il Publico bene.

Salvatore Accardi – www.trapaniinvittissima.it

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[1] Gli antichi mestieri degli artigiani trapanesi vivono ancora nei toponimi delle vie cittadine di Via delle arti, dei corallai, degli scultori, dei funai, dei tintori, degli scarpari, ecc. e nel quartiere della Bocceria, di San Lorenzo e del Casalicchio. [2] In merito segnaliamo la considerazione del viceré Giovanni De Vega, che nella sua permanenza a Trapani (1547-1557), lamentava che da alquanto tempo in cità non si osservava più ordine nella precedenza del cereo, anzi ogni cosa procedeva disordinatamente e dispose di disciplinarlo in modo che in primis doveva andare la Santa Cruci, poi li schiavi, li burgisi, li navi, la barca, li putiari, li tavirnari, li siniari, li firrara, li muratura, li mastrurascia, li bottai, li calafati, li curdara, li spatari, li cubbaitari, li carnizzeri, li custureri, li curallari, li arginteri, li barberi, li mircanti, li speziali, et merceri a bando. In totale erano presenti ben venti ceti, gli stessi, che anni dopo ebbero in concessione i gruppi dei Misteri della passione di nostro Signore Jesu Christo. (Carlo Guida – Trapani durante il governo del viceré Giovanni De Vega – tipografia Radio, 1930). [3] Si ha notizia che a Genova, intorno al 1242, i fabbri orefici (fraveghi) costituirono i propri capitoli. Alcuni studiosi riportano che il primo statuto degli orefici di Napoli fu redatto durante il regno di Carlo II d’Angiò, modificato nel 1380 da Giovanna I e nel 1474 da Ferdinando d’Aragona. In quello statuto s’infondeva la massima attenzione agli oggetti orafi d’incerta provenienza intervenendo con la punzonatura detta anche marca. A Bologna l’honorata compagnia degli orefici costituiva il proprio statuto nel 1573 e a Vicenza i fraia, cioè le corporazioni organizzavano l’operato degli artigiani e compilavano i loro statuti. [4] In merito, rammentiamo che nell’àpoca del 26 aprile 1765 redatta dal notaio Nicolò Badalucco, abbiamo scoperto che Vincenzo Foderà, lettore del convento di San Domenico di Marsala, incaricava Domenico Rizzo e Bernardo Zorba, consoli ed orefici trapanesi, a costruire ut vulgo detto fabricare un Lampero d’argento di Bolla di peso Libre duodeci in circa del Modello secondo il Lampero di questo Venerabile Collegio della Compagnia di Gesù. [5] L’originale facciata della chiesa di San Giovanni è scomparsa ed ora accoglie il magazzino dell’Oviesse, anni fa della Standa. Resta soltanto a tramontana la vista del grande tetto. In passato sopra la porta maggiore era collocato un Agnus Dei e la croce di Malta, un tempo di pertinenza della religione gerosolimitana, forse identico al rosone della chiesa di Sant’Agostino. Benigno da Santa Caterina, in Trapani Sacra del 1812, volume primo, parte seconda, capo V – delle chiese e de’ conventi di Trapani – al punto 20, riferisce che nel 1641, successe in questa Chiesa il seguente memorabile caso. Don Francesco Romano catanese canonico di Palermo, mentre facea il suo quaresimale in Trapani il giorno 15 di febrajo dopo le ceneri … accadendo la predica “della dilezione de’ Nemici” fece nel discorso dell’arringa la seguente comparazione ‘‘siccome il tetto di questa Chiesa, se ora si precipitasse sopra di Noi, arrecherebbe danno, che non solo ucciderebbe a Noi tutti, ma ancora recherebbe danno a se stesso col precipitarsi, così il Nemico, nell’atto stesso che si vendica del suo Avversario, nuoce a se stesso e precipita l’anima su nell’Inferno’’. Mirabile detto! Appena terminò il predicatore una tale comparazione, che di subito il tetto della chiesa precipitò e nel cadere, uccise quasi trecento Persone tra Uomini e Donne.

[6] Veni Creator Spiritus – Viene lo Spirito Creatore, è l’inno cantato nel vespro e nella Pentecoste con il quale s’invocava solennemente lo Spirito Santo. “Veni, Creator Spiritus, Mentes tuorum visita, Imple superna gratia, Quae tu creasti pectora. Qui diceris Paraclitus, Altissimi donum Dei, Fons vivus, ignis, caritas, Et spiritalis unctio. Tu septiformis munere, Digitus paternae dexterae, Tu rite promissum Patris, Sermone ditans guttura. Accende lumen sensibus, Infunde amorem cordibus, Infirma nostri corporis, Virtute firmans perpeti. Hostem repellas longius, Pacemque dones protinus, Ductore sic te previo, Vitemus onme noxium. Per Te sciamus da Patrem, Noscamus atque Filium, Teque utriusque Spiritum, Credamus omni tempore. Deo Patri sit gloria, Et Filio, qui a mortuis Surrexit, ac Paraclito, In saeculorum specula”. [7] Noto come inno ambrosiano, il Te deum laudamus, composizione poetica attribuita a Niceta di Remesiana vissuto intorno al 400, è stato rivisitato nella forma originaria a seguito delle eresie passate. “Te, o eterno Padre venera tutta la terra! A Te gli Angeli tutti, a Te, i Cieli e tutte le Potenze, a Te i Cherubini e i Serafini, inneggiano con voce incessante. Te deum laudamus. Santo il Signore Dio Pantocratore! I cieli e la terra sono pieni della tua gloria! Te deum laudamus. Te il glorioso coro degli Apostoli Te il non piccolo numero dei Profeti Te il candido esercito dei Martiri, Te la santa Chiesa diffusa su tutta la terra, confessa. Te deum laudamus. Padre della gloria immensa il Figlio tuo unigenito vero e adorando il Santo (tuo) Spirito Consolatore! Te deum laudamus. Tu, o Cristo, Re della gloria, Tu Figlio eterno del Padre. Tu per il progetto di liberazione dell’uomo ti sei abbassato nel grembo della Vergine! Tu vincitore del pungiglione della morte hai aperto ai fedeli il regno dei cieli! Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre e noi crediamo che, giudice, verrai! Tu dunque soccorri i tuoi servi che hai redenti con il sangue tuo prezioso e fa che si riuniscano nel numero dei tuoi Santi! Te deum laudamus“. [8] Alla soglia del 1800 si contrattavano ancora schiavi berberi e cristiani quest’ultimi catturati dai Cattivi (clicca su L’ultima folata di schiavitù). Con quella disposizione, il console obbligava l’associato a non tramandare l’arte allo schiavo, il cui compito era relegato solamente nell’espletamento dei compiti e servizi giornalieri assegnatogli e nei possibili trasporti degli strumenti, attrezzature e dei cosiddetti letti di campo indispensabili nelle baracche delle fiere cittadine ed altrove. Ricordiamo che lo schiavo, al pari di qualsiasi proprietà, era dichiarato nei Fuochi delle Anime, cioè nel censimento periodicamente disposto dal regio fisco. [9] Sicuramente tra gli orafi e gli argentieri sottoscrittori c’era qualcuno di discendenza ebraica. Allo stesso modo, tutti erano consapevoli che tanti orafi ebrei convertiti coattivamente al cristianesimo perpetuarono ai discendenti la loro preziosa arte orafa, nella stessa maniera in cui gli arabi la insegnarono ai normanni. Il lavoro di quest’ultimi artisti, che intarsiarono ed incastonarono sapientemente gemme colorate, si ammirano tuttora con quelli bizantini e normanni alla Giza, nella cappella palatina del palazzo normanno di Palermo e nella cattedrale di Monreale. [10] Per comprendere le regole sui pesi usati in quel periodo, diamo un’esemplificazione dell’odierna corrispondenza metrica rispetto al peso detto “alla sottile”, allora considerato con libbra, oncia, trappeso, grano ed ottavo, elencati nella sottostante tabella. Sappiamo che l’oro è calcolato con il carato, unità di misura usata per determinare quanto oro puro è contenuto in ventiquattro parti di lega d’oro e con il titolo che misura la purezza espressa in millesimi. Ad esempio, l’oro a ventiquattro carati è puro, mentre quello a diciotto carati equivale a 750 millesimi d’oro puro, vale a dire che contiene diciotto parti d’oro e sei parti di lega con altri metalli [(24 : 18 = 1,33) 1000 : 1,33 = 751]. Il carato esprime anche il peso o la massa della pietra preziosa (diamante, rubino, zaffiro, smeraldo, acqua marina, ambra ecc.) calcolato in passato, con il sistema anglosassone, in 0,26 grammi, che determinava il peso di un’oncia di diamante in cento carati (un’oncia di grammi 26,44 : 100 = 0,26 grammi). Adesso è calcolato in 0,22 grammi o ad ¼ del peso di quattro cocci o grani (0,055 x 4 = 0,22), vale a dire che il grano esprime la venticinquesima parte del carato.

1 libbra = 12 once = grammi 317,(37)
1 oncia = 30 trappesi = grammi 26,(4475)
1 trappeso = 16 cocci = grammi 0,8(8158)
1 coccio o grano = 8 ottavi = grammi 0,05(50)
1 ottavo = grammi 0,0068

[11] Millesimi che scaturiscono da: [(carati 24 d’oro puro : 21 carati = 1,142) 1000 : 1,142 = 875 millesimi]. [12] Curiosità: la titolarità del dipinto artistico con relativo autografo del pittore comparve agli inizi del XIX secolo. [13] Lettere dell’archivio del Senato di Trapani, carpetta 13. [14] Il primo dicembre 1775 si elesse Vincenzo Caraffa console orafo dell’arte. [15] È il caso accaduto all’orefice Bartolomeo Buzzo, forse parente del notaio Luigi. L’orefice trapanese vantava o meglio godea un certo credito sopra Matteo Melilli argentiero di Castelvetrano, il quale non riusciva ad ottemperare all’impegno assunto. Per questo motivo Buzzo gli fece sequestrare la Cassetta impedendogli il godimento della Libertà. E dopo tanta replicata preghiera di persuaderlo di levargli il sequestro della Cassetta, forzato dalla necessità Melilli contribuiva Buzzo con 25 onze che non assorbivano l’intiero suo Debbito quantunque prima si legittimava di non esser li giogali d’oro, ed argento suoi, pure poi forzato dalla dura necessità gli consegnò onze trentadue in circa di sudetti giogali, col patto, che fra lo giro d’un mese dovea il sudetto di Melilli consegnarli il rimanente dovuto danaro, ed il sudetto del Buzzo restituirgli li sudetti giogali, e caso mai non avesse il sudetto di Melilli adempito fra il appunto termine al suo dovere la sudetta robba d’oro ed argento si sentiva acquistata come se fosse stata venduta al sudetto di Buzzo. (dall’inserzione all’atto redatto da Ignazio Maria Bello, il 25 gennaio 1782). [16] Con la recente scoperta di nuove leghe acquistiamo oggetti indorati e placcati con la tecnica del silverplated, sheffield ed argentone. Il primo consiste nel galvanizzare l’ottone argentato e nichelato, il secondo nel ricoprire il rame con una sottile lamina d’argento mediante la fusione, l’ultimo, nel galvanizzare una lega composta di rame, zinco e nichelio argentato. [17] Si tratta dell’utilizzo delle calie, cioè degli scamuzzoli e dei rimasugli di minutissime particelle di metallo che si staccavano durante la lavorazione. [18] Nel 1573 gli orafi ed argentieri esponevano alla fiera i loro lavori e cosuzze con quelli prodotti dai panieri, cauzitteri, merceri, corallari, vetrari, gipponari, ferrari, spatari, corviseri, cordari, stagnatari, confitteri, cobaitari, sfinchiari, perfumeri, draherij, zafaranari. In quell’anno il Consiglio delle Baracche stabiliva che per l’occupazione del suolo fieristico li arginteri hagino di pagari a voluntà di li magnifici mastri di fera di modo chi non exceda la summa di tarì dudichi per ogni barracca ita chi in una barracca non possa stari più di un mastro. (Archivio del Senato, carpetta 751, Carte sul convento dell’Annunziata, fascicolo XIII, lettera del due agosto 1573 – biblioteca Fardelliana di Trapani). [19] Il Pio Monte di Pietà s’istituì nel 1542 con lo scopo di assistere la misera gente e donare, anche con la raccolta d’elemosine devolute dai fedeli nelle chiese, una discreta dote alle giovani orfane che si collocarono in matrimonio secondo logica d’estrazione sociale. L’istituto fu amministrato da cinque rettori d’estrazione nobiliare, eletti per la prima volta nel 1545, i quali rappresentavano ciascuno uno dei cinque vecchi quartieri cittadini, vale a dire quello dei Biscottari, della Giudecca, della Rua Nueva, della Loggia e delle Botteghelle ed esercitarono l’istituto proprio ordinato da diversi pii Testatori, che hanno disposto delle loro Eredità in vantaggio del Pio Monte ed in sollievo delli Poveri”. Sul finire del XVIII secolo, i rettori passarono da cinque a tre, anche d’estrazione borghese ed in rappresentanza dei tre nuovi quartieri della città: quello di San Lorenzo, di San Nicola e di San Pietro.

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